Un morso di zecca o una puntura di una zanzara possono rivelarsi più di un semplice fastidio e diventare un problema di salute. Zecche e zanzare possono infatti trasmettere diverse malattie, in alcuni casi anche serie. Per proteggersi da questi rischi è consigliato l’uso di repellenti da applicare sulla pelle. Ma come sceglierli? In che modo usarli? Quali funzionano?
Ecco un decalogo per orientarsi fra i vari tipi di repellenti disponibili in commercio.
– Adoperiamo solo prodotti registrati
I repellenti hanno lo scopo di evitare morsi e punture. Quelli “sicuri” sono registrati come Presidi Medico Chirurgici (PMC) presso il Ministero della salute o come Biocidi secondo il regolamento dell’Unione Europea (UE) n. 528/2012.
Si tratta di prodotti preventivamente testati e risultati esenti da effetti nocivi per le persone e per l’ambiente. Un prodotto non registrato non è stato testato per le possibili conseguenze derivanti dal suo uso e va quindi considerato un prodotto non sicuro.
– Leggiamo le etichette
Fondamentare è leggere l’etichetta del singolo prodotto e verificare verso quali parassiti è stato testato.
Diversi prodotti funzionano sia verso le zecche sia verso le zanzare.
– Facciamo attenzione ai principi attivi
I repellenti di comprovata efficacia sono quelli contenenti:
– Dietiltoluamide (DEET)
– Icaridina (KBR 3023)
– Paramatandiolo (PMD o Citrodiol).
Prodotti a base di citronella, lavanda e bergamotto non garantiscono invece una difesa adeguata.
– Rispettiamo i tempi di applicazione
L’efficacia e la durata protettiva dei repellenti dipendono dalla concentrazione del principio attivo utilizzato: più è alta la percentuale del principio attivo, maggiore è la protezione in termini di efficacia e durata.
Occorre tuttavia tener conto che fattori esterni, come la temperatura e la sudorazione, possono influenzare la durata degli effetti protettivi.
In ogni caso è consigliato rispettare gli intervalli di applicazione indicati in etichetta.
– Scegliamo la formulazione più adatta
In commercio esistono diversi prodotti repellenti, formulati in:
Lozioni: sono facilmente distribuibili con le mani, ma per l’applicazione sul volto necessitano di particolare attenzione.
Roll-on: sono pratici, permettono una distribuzione uniforme del prodotto, evitando dispersioni nell’ambiente. Sono adatti per l’utilizzo sui bambini.
Spray: non assicurano un dosaggio uniforme, sul volto vanno applicati con le mani e non usati direttamente, sono comodi per l’impregnazione saltuaria di abiti da lavoro. Attenzione: sono infiammabili.
Braccialetti: sono pochi quelli registrati e in grado di assicurare una reale efficacia. Inoltre la loro azione protettiva si limita alla pelle vicina al braccialetto stesso.
Salviette e spugnette: sono adatte per l’utilizzo sul volto, rilasciano però un quantitativo limitato di principio attivo.
Formulazioni spalmabili (creme, gel): sono le più tollerate, permettono un adeguato dosaggio e una corretta distribuzione.
– Adottiamo alcune fondamentali prudenze
Qualsiasi formulazione si scelga è fondamentale distribuire il repellente in maniera omogenea su tutta la pelle da proteggere, avendo cura di:
– evitare il contatto con gli occhi e la bocca
– limitare l’applicazione alla sola pelle esposta e all’abbigliamento
– non utilizzare il repellente sulla pelle sotto i vestiti
– usare solo il quantitativo necessario: un’applicazione eccessiva non dà una protezione maggiore e potrebbe invece causare reazioni avverse.
I repellenti non vanno mai usati su tagli, ferite o pelle irritata.
– Limitiamo le applicazioni nei bambini e nelle donne in gravidanza o allattamento
Anche se ci sono prodotti utilizzabili sui bambini di età superiore ai 2 anni e da donne in gravidanza e allattamento è sempre consigliabile limitare le applicazioni e verificare attentamente quanto riportato in etichetta.
In caso di dubbi è opportuno consultare preventivamente il medico o il pediatra di fiducia.
Una precauzione importante è non mettere il repellente sulle mani dei bambini per evitare che lo trasferiscano agli occhi e alla bocca.
– Usiamoli anche con la protezione solare
Quando ci si trova all’aperto è possibile utilizzare il repellente e la protezione solare allo stesso tempo. L’importante è seguire le istruzioni riportate sulle rispettive confezioni.
È consigliato applicare prima la protezione solare e poi il repellente.
– Cosa dobbiamo fare in caso di reazioni
Qualora il repellente provochi una reazione avversa (comparsa di arrossamenti sulla pelle o altri sintomi) occorre:
sospendere l’applicazione
lavare la pelle con acqua e sapone neutro
consultare il medico, mostrando possibilmente il prodotto usato.
– Quando la protezione non è più necessaria
Bisogna detergere la pelle trattata con acqua e sapone.
Gli ultrasuoni sono un’alternativa?
In commercio esistono diversi dispositivi a ultrasuoni, calibrati per emettere lunghezze d’onda repulsive e per questo considerati un’alternativa ai repellenti.
In ordine al loro funzionamento l’Istituto Superiore di Sanità afferma “al momento nessuno di questi apparecchi riesce a garantire un’effettiva protezione”.
Insetticidi e acaricidi: maneggiamoli con cura!
Sugli indumenti, le scarpe e l’equipaggiamento è possibile applicare sostanze insetticide o acaricide. Il principio attivo è la permetrina, una sostanza in grado di eliminare zanzare e zecche al semplice contatto con i tessuti trattati.
Nonostante questa capacità di risolvere il problema alla radice l’utilizzo di insetticidi e acaricidi è indicato in situazioni di effettiva necessità perché possono:
venir assorbiti dalla pelle (non è del tutto chiaro con quali effetti)
risultare nocivi per l’ambiente (in particolare per api, pesci e invertebrati acquatici).
Insetticidi e acaricidi inoltre non vanno mai utilizzati sulla pelle e la loro applicazione su vestiario e attrezzature deve seguire scrupolosamente avvertenze e raccomandazioni riportate sui prodotti.
Per approfondire guarda il video
Fonte tabella: https://veterinari.aulss9.veneto.it/Repellenti-da-usare-contro-le-zanzare
Tabella dei prodotti repellenti di più largo consumo, con indicazione del principio attivo e della concentrazione, nonché della durata protettiva
Con l’arrivo dell’estate quanti frequentano le zone di montagna devono tener conto dell’elevata presenza di zecche anche a quote medio-alte ed essere consapevoli dei rischi per la salute.
A diffondere l’avviso è il Collegio Nazionale Guide Alpine, il quale sottolinea che le zecche non sono un semplice fastidio, ma possono rivelarsi “una causa di infezioni e un potenziale veicolo di malattie infettive”.
Non ci sono zone indenni
Le zecche, rimarcano le Guide Alpine, sono sempre più diffuse nelle aree montane.
Si incontrano nei percorsi a bassa e media quota, in particolare fra gli arbusti e l’erba alta, ma nella stagione estiva è possibile trovarle oltre i 2000 metri e “dove si va ad arrampicare anche d’inverno, sono ormai presenti praticamente tutto l’anno”.
Chi va in montagna deve quindi organizzarsi “per una prevenzione continuativa” e ricordare che non ci sono posti sicuri dove abbassare la guardia.
Un effetto del clima
Il problema zecche è sensibilmente aumentato negli ultimi anni.
A causa dell’innalzamento delle temperature e, più in generale, dei cambiamenti climatici in corso le zecche sono attive per buona parte dell’anno e a quote via via più elevate. Incontrarle durante un’escursione è un evento sempre meno raro.
Una situazione impensabile fino a un decennio fa quando era difficilissimo incontrare zecche durante l’inverno oppure sopra i 1500 metri.
Cosa fare
Le Guide Alpine ricordano l’importanza di ispezionarsi sempre al ritorno da un’escursione, da un’arrampicata o da una camminata nei prati o nei boschi e invitano a farlo con l’aiuto di un’altra persona per controllare anche i punti più difficili, come la nuca e la schiena.
Poiché il morso di zecca raramente viene avvertito ed è difficile accorgersi di avere una zecca sulla pelle, raccomandano di dedicare all’ispezione una particolare cura per:
– individuare rapidamente eventuali zecche presenti sul corpo,
– staccarle il prima possibile utilizzando una semplice pinzetta a punte sottili o uno specifico estrattore, disinfettando poi la parte interessata “per evitare piccole infezioni”.
Vietati i «rimedi della nonna»
Per rimuovere una zecca gli esperti alpini invitano a non utilizzare sostanze oleose o irritanti perché potrebbero causare un rigurgito della zecca e aumentare la trasmissione di agenti infettivi.
Consigliano inoltre di non toccare mai la zecca a mani nude per non incorrere, anche accidentalmente, nel loro morso.
I segni da monitorare
Le Guide Alpine sottolineano che punture di zecca possono trasmettere varie infezioni.
Le due più comuni sono la malattia di Lyme e l’encefalite da zecche (o Tbe). Entrambe possono rivelarsi molto serie e in grado di causare disturbi persistenti, soprattutto se non riconosciute e curate per tempo.
Il segno caratteristico della malattia di Lyme è una lesione sulla pelle: appare come una macchia rossache tende lentamente a espandersi. Per questo motivo è chiamata Eritema migrante.
Più subdola invece la presentazione dell’encefalite da zecche, spesso legata a sintomi poco specifici come febbre, brividi, mal di testa e dolori a muscoli e articolazioni. Solitamente sono di breve durata, ma dopo un periodo di relativo benessere può iniziare la seconda fase di malattia “caratterizzata da disturbi del sistema nervoso centrale, con la comparsa di paralisi dei nervi cranici e spinali, anomalie dell’equilibrio, tremori, confusione mentale”.
Se alcuni giorni o settimane dopo un’escursione o un’attività in montagna dovesse comparire un arrossamento cutaneo o si presentasse una febbre di origine sconosciuta accompagnata da disturbi di tipo simil-influenzale è quindi importante rivolgersi subito al medico.
Come proteggersi
Le Guide Alpine sottolineano che il metodo più efficace per tutelare la propria salute è evitare i morsi di zecca.
Per riuscirci la prima regola è il corretto abbigliamento: utilizzando pantaloni lunghi, una maglia a maniche lunghe, calzettoni e scarpe alte e chiuse le zecche hanno più difficoltà a trovare un lembo di pelle al quale attaccarsi.
Esistono anche degli spray repellenti, ma sono sostanzialmente gli stessi pensati per gli insetti, quindi nessuno ha un’efficacia protettiva del 100%. Inoltre vanno usati seguendo scrupolosamente le avvertenze riportate sui prodotti.
I consigli
Le zecche sono una minaccia quasi invisibile ma concreta per gli escursionisti e gli amanti della natura.
Informarsi, essere consapevoli dei potenziali rischi causati dal loro morso e adottare semplici misure preventive può contribuire a proteggere la propria salute e permette di “godere le meraviglie della natura in montagna in modo sicuro”.
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La provincia di Belluno si conferma ad alto rischio Tbe (encefalite da zecche). I due casi accertati ad aprile 2024 sono lievitati a 10 nella prima metà giugno e potrebbero aumentare ancora nelle prossime settimane. Luglio infatti è il mese che tradizionalmente registra il picco più alto di malattia.
Con l’arrivo del caldo dopo le piogge gli esperti del Cai prevedono “un’invasione di zecche senza precedenti” e invitano chi frequenta i boschi e le aree naturali a fare grande attenzione: la probabilità di subire una puntura infettante è molto alta.
L’invito a vaccinarsi
La preoccupazione del Cai bellunese è condivisa dalle autorità sanitarie locali. La Tbe, avvisa l’AULSS Dolomiti, è una malattia potenzialmente grave per la quale non esistono cure specifiche, ma solo trattamenti di supporto. Può richiedere una lunga riabilitazione e lasciare conseguenze molto serie, tali da impedire il ritorno alla normalità. Può inoltre rivelarsi mortale nell’1-2% dei casi.
Da qui l’appello dell’azienda sanitaria a prevenire l’encefalite da zecche con la vaccinazione, gratuita per i residenti e fortemente raccomandata ai turisti in arrivo sulle montagne bellunesi.
A rafforzare l’appello ci sono i dati epidemiologici: quasi un terzo (29%) dei casi nazionali di Tbe accertati nel quinquennio 2018-2022 deriva da morsi di zecca avvenuti in provincia di Belluno.
Dove si rischia di più
Anche se l’intero Bellunese è considerato endemico, “l’incidenza dell’encefalite da zecche risulta più elevata nella zona del Cadore procedendo con un massimo nella regione orientale. A seguire Cencenighe Agordino, Agordo, Rivamonte Agordino, Longarone”.
Inferiore l’incidenza a Belluno, Ponte nelle Alpi, Sedico, Limana, Borgo Valbelluna, Feltre, Pedavena e negli altri comuni bellunesi.
Attenzione anche per la malattia di Lyme
Nell’area risulta in sensibile aumento anche la malattia di Lyme, trasmessa dalle stesse zecche portatrici del Tbe-virus. È curabile con antibiotici ma non si può prevenire con il vaccino.
L’unica arma per non ammalarsi è l’adozione di 5 semplici regole, volte a evitare i morsi di zecca:
– vestirsi con abiti protettivi possibilmente di colore chiaro
– restare sui sentieri durante le escursioni
– utilizzare repellenti sugli indumenti non a contatto con la pelle
– controllare attentamente la pelle e gli indumenti a fine escursione
– rimuovere subito le eventuali zecche trovate sul corpo.
Le contromisure: il controllo del territorio
L’AULSS Dolomiti ha stretto un accordo con l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie per monitorare gli ambienti ad alta densità di zecche.
L’attività fa parte di MonZec, il progetto transfrontaliero che si propone di raccogliere e studiare gli agenti patogeni veicolati dalle zecche in provincia di Belluno, nel Titolo Orientale e in Val Pusteria. Ha una durata di 30 mesi (da marzo 2024 ad agosto 2026) e prevede il coinvolgimento della polizia provinciale e delle associazioni venatorie per geolocalizzare le zecche presenti su animali e fauna selvatica attraverso un’apposita App.
L’analisi e la rielaborazione statistica delle informazioni consentiranno di ottenere una mappa aggiornata sulla diffusione ambientale delle zecche, sulle specie presenti e sugli agenti infettivi di cui sono portatrici, indirizzando “quanti frequentano le aree naturali (cittadini, turisti, cacciatori, ecc.) verso comportamenti utili a ridurre i rischi durante le attività”.
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La nota rivista medica The Lancet Infectious Diseases ha pubblicato gli studi della seconda fase di sperimentazione clinica del candidato vaccino VLA-15, sviluppato da Valneva e Pfizer per prevenire la malattia di Lyme. I risultati dei test condotti su 821 volontari hanno dato prova che il VLA-15 è “sicuro, ben tollerato e in grado di suscitare robuste risposte anticorpali” contro i batteri di Lyme.
Gli esiti – riferisce il Lancet – “supportano l’ulteriore avanzamento della sperimentazione clinica” e sono accessibili dalla piattaforma internazionale ClinicalTrials.gov come studio NCT03769194 e studio NCT03970733.
I test in corso
La terza e ultima fase di sperimentazione clinica del VLA-15 è già iniziata in siti americani ed europei ad alta endemia. Prevede la somministrazione del candidato vaccino a 6mila volontari e dovrà verificare su ampia scala la sua:
– efficacia protettiva
– sicurezza
– immunogenicità (capacità di stimolare il sistema immunitario a produrre anticorpi contro i batteri che causano la malattia di Lyme).
I dati relativi agli studi clinici della terza fase saranno verosimilmente disponibili entro il 2025 o il 2026.
Se confermeranno adeguati livelli di efficacia, sicurezza e tollerabilità il VLA-15 potrà iniziare l’iter per la registrazione e l’immissione in commercio.
Come funziona
Il VLA-15 prende di mira la proteina A (OspA) della superficie esterna della Borrelia, il battere che provoca la malattia di Lyme. Agisce durante il pasto della zecca “bloccando” la proteina OspA e impedendo al battere “di lasciare la zecca e di infettare l’uomo”.
È attivo nei confronti dei sei ceppi di Borrelia più diffusi in Nord America e in Europa, responsabili della maggior parte dei casi di malattia.
Il ciclo vaccinale
Lo schema di vaccinazione prevede 3 dosi, inoculate per via intramuscolare, con un intervallo di 2 mesi tra la prima e seconda dose e di 4 mesi tra la seconda e la terza dose.
Richiede inoltre una dose di richiamo (booster) a distanza di un anno.
Le persone arruolate per l’ultima fase di sperimentazione riceveranno tutte le 4 dosi.
Le ricadute sulla sanità pubblica
Il CDC, organismo di controllo della sanità pubblica negli Stati Uniti, sta “conducendo ricerche per comprendere le preoccupazioni che gli operatori sanitari e la popolazione in generale” potrebbero avere riguardo al potenziale vaccino contro la malattia di Lyme.
Nel suo sito istituzionale il CDC precisa: “se un vaccino contro la malattia di Lyme sarà approvato come sicuro ed efficace dalle autorità di regolamentazione, il CDC collaborerà con il comitato consultivo sulle pratiche di immunizzazione (ACIP) per sviluppare raccomandazioni su chi potrebbe trarre beneficio dalla vaccinazione. Tali raccomandazioni saranno divulgate pubblicamente per informare cittadini e professionisti della sanità.
Gli altri vaccini in via di sviluppo
Quello di Valenva e Pfizer è attualmente il vaccino in più avanzata fase di sperimentazione clinica. Non è tuttavia non è l’unico in via di sviluppo.
Il colosso americano Moderna sta lavorando a un vaccino basato sulla tecnologia a mRNA, già utilizzata per il Covid-19, mentre MassBiologics, unico produttore di vaccini senza scopo di lucro negli Stati Uniti, ha messo a punto un anticorpo monoclonale umano (chiamato “Lyme PrEP”) da utilizzare come profilassi pre-esposizione per la malattia di Lyme.
Secondo gli sviluppatori “fornisce un’immunità immediata, uccidendo i batteri nell’intestino della zecca”. Prevede una singola iniezione all’anno e dovrebbe garantire una protezione di 6-9 mesi. La sua sperimentazione è già iniziata in Nebraska e l’intendimento di MassBiologics è di procedere speditamente con le ulteriori “prove sul campo” per rendere disponibile l’iniezione immunizzante entro il 2025.
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La tecnologia elettromagnetica è utilizzata da diversi anni nella medicina estetica. Uno recente studio pubblicato sul Journal of Cosmetic Dermatology presenta alcune prove della sua utilità anche nella malattia di Lyme, in particolare nel trattamento dei sintomi persistenti.
Lo studio riporta i benefici ottenuti da otto pazienti dopo aver completato un ciclo di sedute con tecnologia VFEM (energia elettromagnetica a frequenza variabile), segnalando che “tutti gli otto pazienti hanno avuto un miglioramento significativo nell’arco di 4 mesi”.
Gli antefatti
Nel 2020 due pazienti con sindrome di malattia di Lyme persistente (PTLDS) hanno registrato alcuni effetti a seguito di un trattamento elettromagnetico focalizzato ad alta intensità (HIFEM) utilizzato per la tonificazione e il rafforzamento muscolare.
Inizialmente hanno manifestato una serie di disturbi di varia intensità, noti come reazione Jarisch-Herxheimer (Herx), responsabile di spossatezza, febbre, cefalea, dolori muscolari (mialgia). I sintomi si sono progressivamente attenutati continuando i trattamenti ed hanno infine lasciato posto ad una sensazione generale di benessere.
I risultati hanno portato a selezionare un terzo paziente con storia di PTLDS che, sottoposto agli stessi trattamenti di stimolazione elettromagnetica, ha mostrato un’analoga risposta positiva, nonostante la grave reazione Herx comparsa poche ore dopo il trattamento.
Gli esiti di tali sperimentazioni, successivamente allargate ai coinvolgimento di altri due pazienti, sono stati pubblicati nel 2022 come approccio promettente per attenuare i sintomi di lunga durata della borreliosi.
La ricerca di conferme
Al fine di verificare se la tecnologia elettromagnetica focalizzata ad alta intensità (HIFEM) poteva rappresentare un trattamento utile nei casi di Lyme persistente è stata condotta una nuova ricerca, coinvolgendo dieci pazienti di età compresa fra i 17 e i 65 anni, con diagnosi di malattia di Lyme e sintomi di lunga durata nonostante la terapia antibiotica.
L’intento era “determinare se 10 trattamenti con frequenza hertz modificata in un periodo di 4 mesi avrebbero potuto migliorare i loro sintomi” e in che misura favorire la ripresa da:
– grave affaticamento (debilitazione)
– inabilità lavorativa
– incapacità di svolgere le attività quotidiane.
Otto dei dieci pazienti hanno completato il previsto ciclo di trattamenti, sospendendo nel frattempo ogni terapia antibiotica.
I risultati
“Tutti gli otto pazienti si sono dichiarati soddisfatti dei risultati ottenuti e tutti hanno riscontrato un miglioramento significativo della qualità della vita”.
Sulla base di tali esiti i ricercatori hanno concluso che l’impiego della “VFEM (energia elettromagnetica a frequenza variabile) sembra dimostrare un effetto positivo nei pazienti con Lyme persistente, con reazioni avverse o collaterali minime o nulle”.
Per migliorare i risultati e standardizzare l’approccio terapeutico si stanno ora perfezionando i protocolli di trattamento (numero dei trattamenti, frequenze hertz, livelli di energia).
Punti di forza e limiti dell’indagine
Lo studio sottolinea correttamente la non scomparsa dei sintomi persistenti dopo i trattamenti con energia elettromagnetica, ma il miglioramento della sensazione di benessere percepita dai pazienti.
Evidenzia inoltre alcuni vantaggi della magnetoterapia:
– effetti collaterali minimi o nulli
– utilizzo di dispositivi e tecnologie approvate dalla FDA (l’agenzia americana per i farmaci e i dispositivi medici)
– esecuzione dei trattamenti in ambiente ambulatoriale, senza procedure invasive, per una durata limitata di tempo
– possibilità di effettuare trattamenti di mantenimento per salvaguardare e/o prolungare i benefici ottenuti.
A differenza di altri approcci terapeutici non convenzionali lo studio documenta prove e risultati, è condotto da ricercatori che operano presso il Michigan Vascular Institute (USA), una struttura sanitaria autorizzata e riporta altre ricerche che provano gli effetti positivi dei campi elettromagnetici nel trattamento di sindromi dolorose persistenti, come la fibromialgia.
Lo studio tuttavia presenta due limiti:
– il ridotto campione su cui si basano gli esiti dei trattamenti
– i costi delle prestazioni a carico dei pazienti, indicate in 5mila dollari per una serie completa di trattamenti e in “diverse centinaia di dollari l’anno” per i trattamenti di mantenimento.
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Un test sulle urine “in grado di rilevare i batteri (Borrelia) che causano la malattia di Lyme e di confermare l’infezione subito dopo il morso di zecca”. È l’innovativa tecnica a cui stanno lavorando i ricercatori dalla George Mason University, in Virginia (USA).
Lo sviluppo del test è sostenuto da un finanziamento federale di 1,2 milioni di dollari e prevede tre anni di lavoro per la messa a punto della nuova metodologia di analisi.
Gli esami sierologici
Attualmente i test più utilizzati nella diagnosi della malattia di Lyme sono quelli sierologici. Individuano nel sangue dei pazienti la presenza di anticorpi contro la Borrelia, il battere responsabile della malattia.
Poiché gli anticorpi si formano lentamente, sono rilevabili soloalcune settimane dopo il morso di zecca. Ciò implica la necessità di attendere i “tempi tecnici” della loro formazione prima di effettuare gli esami, diversamente c’è il rischio di ottenere un risultato falsamente negativo (perché gli anticorpi non si sono ancora formati).
Gli anticorpi inoltre possono durare a lungo nel sangue ed essere evidenziati dalle analisi anche dopo il trattamento, ad infezione risolta. Sono quindi utili per confermare il sospetto di infezione in presenza di sintomi riconducibili alle fasi acute (anticorpi IgM) o alla fase tardiva (IgG) della malattia di Lyme, ma da soli non bastano per avere una diagnosi certa.
Il nuovo test
L’esame sulle urine rileva invece la presenza dei batteri. È quindi in grado di dimostrare se il morso di zecca ha trasmesso o meno la Borrelia, agente della malattia, subito dopo la puntura.
Rispetto agli attuali test sierologici ha due vantaggi:
– consente di avere una prova certa dell’infezione (perché individua la presenza dei batteri di Lyme),
– di iniziare subito le terapie, contribuendo a prevenire gli effetti debilitanti e a lungo termine dell’infezione.
Per i ricercatori della George Mason University si tratta di uno strumento diagnostico che potrà “rivoluzionare l’accertamento e la diagnosi della malattia di Lyme”.
I risultati delle sperimentazioni
Le prime verifiche hanno dato risultati incoraggianti, dimostrando la capacità del nuovo test di rilevare:
– “un tasso di veri positivi (sensibilità del test) pari al 90%
– un tasso di veri negativi (specificità del test) vicino al 100%”.
Per convalidare i dati di sensibilità e specificità, nonché gli indicatori diagnostici saranno tuttavia necessari diversi studi prospettici condotti su un gran numero di campioni. A questo fine i ricercatori utilizzeranno reperti biologici forniti dalla Lyme Disease Biobank e dalla Johns Hopkins University, due strutture di eccellenza nella ricerca clinica e diagnostica delle malattie trasmesse da zecche.
La raccolta del campione a casa
Il progetto della Mason University prevede anche la sperimentazione di un contenitore pieghevole per la raccolta delle urine, da utilizzare a casa e inviare al laboratorio incaricato delle analisi tramite posta.
A parere degli sviluppatori “il contenitore offrirà un modo privato, comodo e conveniente per raccogliere il campione al proprio domicilio senza compromettere l’accuratezza del test di laboratorio” e sarà idoneo a:
– preservare il campione biologico
– evitare la sua degradazione
– garantire l’accuratezza del test di laboratorio
rendendo l’esame alla portata di tutti.
Premesse promettenti
Sebbene lo sviluppo del test sia ancora agli inizi gli scienziati della Mason University ritengono promettente l’intero progetto e sono ottimisti sull’impatto che potrà avere nella diagnosi tempestiva e accurata della malattia di Lyme.
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In Friuli Venezia Giulia desta preoccupazione la significativa presenza di “zecche giganti” o “zecche marginate” (Hyalomma marginatum), individuata sull’altopiano del Carso dai ricercatori del Museo di storia naturale di Trieste. Non è la prima volta che questi esemplari di zecche sono segnalati in Italia, ma “in passato si è trattato di ingressi indiretti, come ospiti di uccelli migratori o di animali vivi trasportati verso i macelli. In questo caso si tratterebbe invece dell’insediamento di una popolazione stabile”.
Per gli esperti del Museo la causa è dei cambiamenti climatici, responsabili di aver “annullato le prolungate gelate invernali sul Carso”, consentendo alle zecche giganti di trovare le condizioni adatte per insediarsi nella parte orientale della provincia di Trieste.
Caratteristiche e comportamento
Le Hyalomma marginatum sono zecche di grandi dimensioni (possono raggiungere i 2 cm quando sono congeste di sangue) e sono chiamate per questo “zecche giganti”.
Hanno occhi ben sviluppati con i quali individuano l’ospite e trovano i nascondigli dove rifugiarsi.
A differenza delle comuni zecche dei boschi (Ixodes ricinus) non aspettano passivamente le proprie vittime (animali o uomo), ma cercano l’ospite attivamente e sono in grado di inseguirlo per dieci minuti o più, camminando o correndo per una distanza che può arrivare anche a 100 metri.
I luoghi a rischio
Le zecche marginate tollerano diverse condizioni di temperatura e umidità e si adattano a una grande varietà di ambienti naturali, comprese le zone aride e assolate, con pietre ed erba bassa.
È quindi possibile imbattersi nel loro morso anche:
– lungo i sentieri
– dove vegetazione è scarsa.
Come proteggersi
Quando si cammina in zone dove è segnalata la presenza di zecche marginate è importante seguire tre consigli pratici:
– non fermarsi per riposare, mangiare o scattare foto (il movimento costante riduce la possibilità di essere raggiunti dalle zecche marginate)
– controllarsi spesso (senza appoggiare a terra zaino ed equipaggiamento)
– se c’è una zecca sulla pelle va tolta subito (essendo più grandi e mobili sono anche più facili da individuare e togliere).
Va inoltre messa in conto la stagionalità: da inizio primavera fino all’autunno inoltrato anche le zecche giganti diventano più aggressive e intensificano la ricerca dell’ospite sul quale nutrirsi.
Una minaccia per la salute
Da alcuni anni il Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ecdc) e l’Istituto superiore di sanità (Iss) seguono con attenzione il diffondersi della zecca marginata in Europa e in Italia.
Il parassita infatti è responsabile di varie zoonosi ed è il principale vettore della febbre emorragica Crimea-Congo (CCHF), un’infezione virale grave e potenzialmente pericolosa per la vita. Finora non si sono registrati casi nel nostro Paese, ma la malattia è considerata un problema emergente in Europa.
Nell’ultimo decennio ha colpito Albania, Bulgaria, Kosovo, Russia, Turchia, Grecia e più recentemente la Spagna.
L’Ecdc pubblica un rapporto annuale sul diffondersi della febbre emorragica Crimea-Congo nel territorio europeo e un dettaglio dei casi accertati. L’obiettivo è prevenire l’espansione della malattia, per la quale non c’è ancora una cura specifica.
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Non è chiaro perché alcune persone sviluppano la malattia di Lyme in modo lieve e altre in forma seria e persistente. La causa potrebbe trovarsi nei geni del DNA. Un gruppo di ricerca olandese ha individuato infatti una variante genetica che predispone alla malattia e ne prolunga la durata.
La scoperta, pubblicata su BMC infectious Diseases e Nature, si basa sull’esame di oltre 1000 pazienti ed è frutto di una collaborazione scientifica tra l’Università di Radboud, nei Paesi Bassi, il Centro medico universitario (UMC) di Amsterdam, l’Istituto olandese per la salute pubblica (RIVM) e il Centro per la medicina individualizzata delle infezioni (CiiM) di Hannover (D).
Il punto di partenza
La malattia di Lyme è causata da un battere (Borrelia) trasmesso dal morso di zecca.
Alla puntura infettante seguono reazioni diverse: alcune persone non se ne accorgono, altre invece si ammalano, altre ancora, nonostante la corretta terapia antibiotica, sviluppano sintomi persistenti come .
– affaticamento
– deterioramento cognitivo
– dolore.
La ricerca collega queste diverse “reazioni” al funzionamento del sistema immunitario e alla sua capacità di rispondere in modo più o meno efficace all’aggressione della Borrelia.
Le indagini su geni e sistema immunitario
Poiché la genetica è implicata nelle differenti risposte del sistema immunitario e nella progressione della malattia, i ricercatori hanno analizzato i profili genetici e immunologici di oltre 1000 pazienti con diagnosi confermata di borreliosi di Lyme, mettendoli a confronto con i modelli genetici di individui sani.
L’analisi – basata su test biologici e di immunologia cellulare – ha consentito di scoprire “una variante genetica finora sconosciuta [variante rs1061632] che aumenta il rischio di malattia di Lyme”.
Ha inoltre individuato 31 nuovi siti genetici coinvolti nella risposta immunitaria all’infezione.
Gli effetti della scoperta
I risultati dell’indagine attribuiscono alla variante rs1061632 la capacità di determinare la suscettibilità, la gravità e la durata della malattia di Lyme.
Per il team di ricerca i portatori di tale variante sviluppano “un numero significativamente inferiore di anticorpi contro la Borrelia” e hanno una predisposizione genetica a:
– sviluppare la malattia
– presentare un’infiammazione più elevata
– manifestare sintomi “che possono durare più a lungo”.
L’utilità dello studio
Oltre a indicare una suscettibilità genetica, la ricerca aumenta le conoscenze “sui geni coinvolti nella risposta immunitaria alla malattia di Lyme”.
Stimola inoltre ulteriori indagini sui processi immunologici coinvolti nella gravità delle manifestazioni cliniche e apre la strada al possibile sviluppo di nuove terapie per curare i disturbi persistenti.
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Nei giorni scorsi è iniziata la sperimentazione clinica sull’uomo di un nuovo potenziale antibiotico per curare la malattia di Lyme. Si tratta dell’ igromicina A, identificata nel 2021 da un team di ricerca della Northeastern University di Boston come antimicrobico eccezionalmente efficace nel distruggere il battere responsabile della malattia (Borrelia burgdorferi).
A dare la notizia è la Flightpath Biosciences di Detroit, l’azienda impegnata a sviluppare il nuovo farmaco (denominato FP-100) in forza della licenza ottenuta dai ricercatori di Boston.
Le fasi della sperimentazione
La prima somministrazione dell’igromicina A in forma orale ha preso il via il 10 maggio con un gruppo di volontari adulti sani. Tutti itest clinici si svolgeranno in unico centro e coinvolgeranno complessivamente 72 partecipanti.
Si tratta della fase iniziale (fase 1) degli studi clinici a cui sarà sottoposto il candidato farmaco e ha lo scopo di valutare la sua sicurezza e tollerabilità.
Se l’esito delle prove sarà positivo la sperimentazione proseguirà con ulteriori due fasi per accertare:
– i risultati prodotti dal farmaco nel trattamento della malattia di Lyme, individuando il dosaggio corretto (fase 2)
– l’efficacia del farmaco, gli effetti collaterali e il rapporto fra rischi e benefici del suo utilizzo in un gruppo molto esteso (da centinaia a migliaia) di persone colpite dall’infezione (fase 3).
Oltre a determinare l’efficacia dell’igromicina A, gli studi focalizzeranno anche tipologia e frequenza delle reazioni avverse e i relativi fattori predisponenti (età, sesso, patologie associate e impiego di altri farmaci).
Al termine delle tre fasi, se i test indicheranno l’igromicina A come “preparato sufficientemente efficace e sicuro”, sarà presentata la richiesta di approvazione del nuovo farmaco alla FDA americana per la sua immissione in commercio.
Cosa sappiamo dell’igromicina A
L’igromicina A è un antibiotico scoperto nel 1953, ma di cui si era abbandonato l’utilizzo per la debole azione esercitata contro gran parte dei batteri.
Nel 2021 i ricercatori della Northeastern University hanno però dimostrato la sua capacità di:
– agire selettivamente e in modo altamente efficace contro la Borrelia, agente causale della malattia di Lyme
– eliminare l’infezione nei topi dopo 5 giorni di trattamento, senza provocare effetti collaterali indipendentemente dalle dosi.
I risultati delle indagini sono stati pubblicati nella rivista Cell il 14 ottobre 2021, ma ci sono voluti quasi tre anni per trovare un’azienda disponibile a testare l’igromicina A come “candidato interessante per curare la malattia di Lyme”.
Le differenze con gli attuali antibiotici
Oggi la malattia di Lyme viene trattata con antibiotici ad ampio spettro, attivi verso una vasta gamma di batteri. Nonostante la loro riconosciuta efficacia antimicrobica presentano due problemi di carattere generale:
– possono aggredire anche i batteri “buoni” della flora intestinale, originando sintomi fastidiosi (vomito, diarrea, dolori addominali)
– a causa del loro ampio e non sempre corretto utilizzo su vasta scala si è originato il fenomeno dell’antibiotico-resistenza, facendo emergere ceppi batterici resistenti all’azione dei farmaci.
L’igromicina A è invece un antibiotico a spettro ristretto che agisce in modo specifico e selettivo contro l’agente causale della malattia di Lyme, senza coinvolgere “i batteri intestinali sani”.
Poiché assomiglia ai nutrienti essenziali di cui si ciba il patogeno difficilmente potrà dare origine a fenomeni di resistenza. Se infatti il battere di Lyme impedisse all’igromicina di funzionare bloccherebbe anche la sua capacità di nutrirsi.
Le aspettative sul nuovo farmaco
L’annuncio della sperimentazione, in coincidenza con il mese di sensibilizzazione sulla malattia di Lyme(maggio), sottolinea l’impegno a trovare nuovi farmaci e nuove strategie di trattamento. Il meccanismo d’azione dell’igromicina A va in questa direzione e rappresenta una potenziale svolta nella ricerca di terapie per combattere l’infezione più diffusa dalle zecche.
A parere degli sviluppatori il nuovo farmaco potrà “cambiare il paradigma del trattamento e, auspicabilmente, ottenere risultati migliori” arginando le complicanze a lungo termine della malattia di Lyme.
Una promessa che ha portato la Steven & Alexandra Cohen Foundation, la Bay Area Lyme Foundation e la Global Lyme Alliance a essere partner degli studi sull’igromicina A e sostenere finanziariamente lo sviluppo del farmaco.
I tempi del progetto non sono tuttavia brevi e i primi risultati della sperimentazione clinica sono attesi per il 2025.
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Fonte immagine: Instagram, Global Lyme Alliance