Non è facile pensare alla malattia di Lyme come causa di ictus. L’eventualità, anche se rara, esiste e non va sottovalutata soprattutto quando l’ictus riguarda pazienti senza evidenti fattori di rischio, che vivono o provengono da aree con elevata prevalenza di malattie trasmesse da zecche.
Lo segnala un articolo pubblicato sul Cureus Journal of Medical Science, a firma di un’équipe medica dell’azienda sanitaria di Caldas da Rainha, in Portogallo. Riporta un caso clinico e il percorso seguito per identificare la borreliosi di Lyme come causa dell’evento cerebrovascolare.
I sintomi
Il caso descritto dai medici portoghesi riguarda una donna di 58 anni che si è presentata al pronto soccorso con:
– paralisi facciale,
– difficoltà di parola (disartria),
– perdita di sensibilità (ipoestesia) e grave emiparesi della metà destra del corpo.
La paziente ha quindi riferito di aver sofferto per diverse settimane di:
– affaticamento,
– dolori alle articolazioni (poliartralgia migratoria),
– mal di testa.
Ha menzionato inoltre di vivere in campagna e di avere cani, ma di non ricordare morsi di zecca.
Le indagini
Poiché gli accertamenti neurologici di routine non hanno chiarito la causa dell’ictus, la paziente è stata sottoposta a indagini per varie infezioni associate al rischio cerebrovascolare (herpes virus, virus varicella-zoster, virus di Epstein-Barr e citomegalovirus) che hanno però dato esito negativo.
Le è stata quindi praticata una puntura lombare e il campione di liquido cerebrospinale ha rivelato anticorpi anti-Borrelia (agente della malattia di Lyme), consentendo la diagnosi di borreliosi di Lyme.
Il trattamento
La paziente ha quindi iniziato un’appropriata terapia antibiotica e pur ottenendo un miglioramento dei sintomi neurologici, ha continuato ad avere:
– disturbi di linguaggio
– emiparesi
migliorate successivamente con la riabilitazione.
I suggerimenti
L’esperienza presentata dai medici portoghesi offre alcune interessanti informazioni:
– l’ictus causato dalla malattia di Lyme è un evento da non trascurare, anche se raro
– non ci sono prove per testare la malattia in ogni paziente colpito da ictus e con noti fattori di rischio cardiovascolare,
– è tuttavia opportuno effettuare i test quando il paziente proviene da un’area endemica e non viene trovata nessun’altra causa evidente dell’evento cerebrovascolare.
La diagnosi che fa la differenza
L’esperienza descritta dai medici portoghesi sottolinea che ai fini di una corretta diagnosi è importante la storia del paziente e la raccolta particolareggiata di notizie su:
– eventuali morsi di zecca
– sintomi compatibili con la malattia di Lyme, in particolare a carico del sistema nervoso (ad esempio: mal di testa persistente, dolore, debolezza e/o perdita di forza o di sensibilità in una parte del corpo).
Il fondato sospetto deve quindi guidare l’esecuzione di test mirati (puntura lombare), in modo da proporre un trattamento convalidato.
Riconoscere tempestivamente la borreliosi come causa dell’ictus consente una pronta terapia antibiotica, facilitando il recupero clinico e riducendo il rischio di complicazioni di lungo periodo e di potenziali conseguenze irreversibili.
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I sintomi persistenti della malattia di Lyme dopo il trattamento sono “una patologia riconosciuta che deve essere ulteriormente indagata”. Lo ha stabilito il 18 febbraio l’Alta Autorità francese per la Salute (HAS), in sede di aggiornamento delle raccomandazioni sulla diagnosi e la gestione delle infezioni trasmesse dalle zecche.
La decisione ha suscitato una forte reazione da parte di France Lyme, l’associazione che rappresenta migliaia di persone colpite dalla malattia di Lyme in Francia. Oggetto di critica è l’approccio adottato dall’Alta Autorità per la Salute nel riconoscere la Sindrome di Lyme post trattamento (o PTLDS): di fatto – sottolinea France Lyme – si è creata una malattia, ma senza “consigliare la minima soluzione, condannando così decine di migliaia di pazienti al vagabondaggio terapeutico”.
Una situazione di stallo
Per l’Associazione francese il riconoscimento della malattia persistente è un passo avanti solo in apparenza, perché “il testo delle raccomandazioni trasforma immediatamente questo passo avanti in una situazione di stallo. Ai pazienti, infatti, non viene fornito alcun supporto terapeutico”.
Da qui la decisa presa di posizione di France Lyme: “ci rifiutiamo di permettere che questo riconoscimento sia solo una trovata pubblicitaria senza alcun reale progresso per i malati”.
La posizione dell’Autorità francese
Le nuove raccomandazioni dell’HAS riconoscono la specificità della sindrome di Lyme post trattamento (PTLDS) ma:
– sollecitano nuove ricerche per migliorarne la comprensione, la diagnosi e la gestione,
– specificano che la persistenza dei sintomi deve essere oggetto di una valutazione clinica approfondita nei centri di competenza (CC-MVT) o di riferimento (CR-MVT) per le malattie trasmesse dalle zecche.
L’invito a studi più approfonditi
L’Alta Autorità per la Salute ricorda che molti agenti patogeni causano sindromi post-infettive, responsabili di sintomi prolungati dopo la risoluzione della fase acuta della malattia.
Relativamente alla sindrome di Lyme post-trattamento o PTLDS sottolinea i sintomi aspecifici che la caratterizzano, tra cui:
– stanchezza inusuale e invalidante
– dolori muscoloscheletrici
– disturbi cognitivi (di memoria e/o di concentrazione).
Segnala inoltre:
– la mancanza di certezze sulle cause e sui meccanismi fisiopatologici della PTLDS
– l’assenza di test specifici per la diagnosi
– la necessità di interrogare il paziente per stabilire un collegamento tra i sintomi persistenti e la malattia di Lyme precedentemente trattata.
Evidenzia quindi la necessità di ulteriori ricerche per colmare le lacune esistenti e per individuare nuove strategie diagnostiche e terapeutiche.
La gestione dei pazienti: nessuna novità
A causa della diversità dei sintomi e della loro variabile intensità da una persona all’altra, l’Autorità francese raccomanda un’assistenza personalizzata, globale e multidisciplinare per i pazienti con Lyme persistente nei centri di competenza o di riferimento per le malattie trasmesse dalle zecche, menzionando anche il supporto psicologico e l’eventuale riabilitazione fisica.
Nei casi di sospetta PTLDS indica quale corsia preferenziale l’invio degli interessati agli stessi centri, i quali decideranno il trattamento, in collaborazione con il medico curante, una volta stabilita la diagnosi.
Le indicazioni per il futuro
L’Alta Autorità per la salute sottolinea la necessità di continuare l’implementazione di sperimentazioni cliniche di alto livello sulla borreliosi persistente e propone diverse aree di ricerca.
In particolare segnala l’esigenza di:
– determinare la frequenza, l’intensità, i fattori di rischio e l’evoluzione dei sintomi funzionali a seguito del trattamento della malattia di Lyme;
– identificare un insieme di parametri (clinici, biologici e di imaging) che potrebbero aiutare nella diagnosi e nella possibile sottotipizzazione della PTLDS;
– valutare l’uso di anti-infettivi (molecole, dosaggio, durata, ecc.) e di altri trattamenti nel contesto di sperimentazioni cliniche terapeutiche;
– consolidare le conoscenze relative alle diagnosi differenziali nei pazienti con sospetta malattia persistente;
– sviluppare un approccio di ricerca multidisciplinare e traslazionale per comprendere la PTLDS nella sua interezza, includendo tra i campi di ricerca le dimensioni immunologica, genetica, neurologica, endocrina, metabolica, microbiologica, psicologica e sociologica (senza escludere altri possibili campi).
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Fonte immagine: francelyme.fr
L’Università di Vienna ha fatto nuove scoperte sui meccanismi d’infezione della Borrelia, agente della malattia di Lyme e ha identificato una potenziale via da seguire per lo sviluppo di terapie alternative agli antibiotici.
Lo studio, recentemente pubblicato sull’International Journal of Molecular Sciences, indica quale possibile trattamento l’utilizzo dei batteriofagi, ovvero virus specializzati nell’attaccare i batteri responsabili della malattia. “Con ulteriori ricerche – sottolineano i ricercatori viennesi – questo metodo potrebbe aprire la strada alla riduzione della dipendenza dagli antibiotici e alla prevenzione delle resistenze”, rivelandosi efficace anche per i casi di Lyme persistente.
Come funziona la terapia fagica
La terapia fagica sfrutta i batteriofagi (o fagi) per combattere le infezioni batteriche.
I fagi si legano ai batteri bersaglio, iniettano il loro materiale genetico, si replicano all’interno dell’ospite batterico e portano alla morte del batterio.
Uno dei principali vantaggi della terapia fagica è la sua specificità: i fagi attaccano solo i batteri patogeni senza danneggiare le cellule umane. Possono inoltre evolversi insieme ai batteri e adattarsi alle loro eventuali mutazioni, senza perdere la propria efficacia.
Una storia lunga un secolo
L’impiego dei batteriofagi per scopi terapeutici non è una novità, ma ha un secolo di storia. È caduto in disuso con l’avvento della penicillina e lo sviluppo degli antibiotici.
Ultimamente è oggetto di diversi studi e ricerche per:
– l’ avanzare di batteri resistenti agli antibiotici
– il mancato sviluppo di nuovi antibiotici, considerato un campo di ricerca difficile e poco remunerativo.
Le norme sull’uso dei fagi
In Europa manca una normativa sull’impiego dei fagi e in molti paesi è ammesso l’utilizzo terapeutico solo all’interno di studi clinici e sperimentali.
Uno dei primi paesi UE a dotarsi di norme specifiche sui cosiddetti “virus ammazza batteri” è il Belgio, che ha condotto interessanti studi clinici sul loro impiego. Ulteriori programmi di ricerca esistono in Francia, Svezia e Stati Uniti, oltre a studi di lunga data in Georgia (ex Unione Sovietica) e Polonia.
I pro
Uno dei principali vantaggi della terapia fagica è la sua specificità. Mentre gli antibiotici ad ampio spettro si possono prescriveresenza bisogno di accertare la natura dell’infezione, l’uso dei fagi chiede di conoscere il patogeno da combattere così da selezionare il fago appropriato.
Per la loro specificità di azione, le terapie fagiche non hanno pressoché nessun effetto collaterale: non intaccano la flora intestinale o altri microbiomi dell’organismo e non contribuiscono a selezionare ceppi batterici resistenti agli antibiotici.
Hanno inoltre un costo contenuto, e stando ad alcune ricerche (da confermare, visto che il loro utilizzo clinico è ancora limitato) sembrano oltremodo efficaci nell’eliminare le infezioni batteriche.
I contro
L’applicazione della terapia fagica presenta tuttavia delle sfide.
In conseguenza della loro natura virale, i fagi sono soggetti all’azione del sistema immunitario umano che potrebbe ridurre la loro efficacia terapeutica soprattutto in caso di somministrazioni ripetute o prolungate.
La produzione su larga scala di fagi e la standardizzazione delle dosi e dei protocolli rappresentano ulteriori ostacoli da superare per una diffusa implementazione clinica.
Le prospettive
Nonostante i risultati promettenti dell’Università di Vienna è al momento difficile ipotizzare se e quando l’uso dei fagi potrà sostituire gli antibiotici nella lotta alla malattia di Lyme. Più verosimile è immaginare un affiancamento, come terapiaper migliorare l’azione dei antibiotici o per ampliare le opportunità terapeutiche, soprattutto nei casi di malattia di Lyme persistente.
Affinché la terapia fagica possa decollare sono necessari ulteriori studi e iniziative di collaborazione tra i centri di ricerca per ottenere:
– fagi con proprietà terapeutiche ottimali e comprovate caratteristiche di sicurezza
– protocolli di utilizzo standardizzati così da facilitare le applicazioni terapeutiche.
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Fonte immagine: www.biopills.net/terapia-fagica/
La Russia ha generato il prototipo di un vaccino a RNA messaggero contro il virus dell’encefalite da zecche (Tbe) e ha dichiarato la sua elevata efficacia protettiva, statisticamente superiore ai vaccini convenzionali. Lo rivela uno studio pubblicato sulla piattaforma bioRxiv da un gruppo di scienziati del Centro nazionale di ricerca per l’epidemiologia e la microbiologia della Federazione Russa.
Si apre la strada a nuove, possibili strategie per prevenire l’infezione causata dal Tbe-virus, in costante aumento a livello globale.
Encefalite da zecche: una malattia in crescita
Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ogni anno si verificano diverse migliaia di nuovi casi di encefalite da zecche.
Un incremento sottolineato anche dal Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (ECDC): l’ultimo rapporto sui casi di Tbe accertati nei Paesi dell’Unione risale al 2022 e documenta un aumento del 14% rispetto all’anno precedente, con il 90% dei casi registrato tra giugno e novembre e un caratteristico picco nel mese di luglio.
La tendenza è confermata anche a livello italiano. Nel monitoraggio divulgato il 5 dicembre 2024 l’Istituto Superiore di Sanità riporta:
– 50 casi di Tbe neuro-invasiva
– due decessi causati dall’infezione
– un’alta concentrazione di contagi in Veneto (soprattutto nel Bellunese), Trentino Alto-Adige (in particolare nella provincia di Trento) e Friuli Venezia Giulia.
Le tre regioni raccomandano la profilassi vaccinale a residenti e turisti in caso di attività (per lavoro o svago) in zone che espongono a possibili morsi di zecca.
Il vaccino attuale
La vaccinazione in uso contro l’encefalite da zecche è a virus inattivato e stimola il sistema immunitario a produrre anticorpi e difendersi dalla malattia “presentandogli” l’agente infettivo in via preventiva.
Prevede la somministrazione di tre dosi:
– la prima dose somministrata il giorno 0;
– la seconda dose a distanza di 1-3 mesi dalla prima;
– la terza dose a distanza di 5-12 mesi dalla seconda.
Poiché il vaccino fornisce protezione già a partire dalla seconda dose, il periodo migliore per iniziare la vaccinazione è quello invernale, così da avere copertura in primavera, quanto inizia la stagione di maggior attività delle zecche.
Le caratteristiche
Il vaccino anti Tbe è sicuro e ben tollerato come dimostrano le statistiche di oltre 500 milioni di vaccinati.
Fornisce un ottimo livello di copertura e qualora il vaccinato contragga l’infezione questa resta asintomatica o si limita a un lieve stato febbrile.
Il vaccino è inefficace verso altri agenti infettivi trasmessi dalle zecche e non difende dalla malattia di Lyme e da altre co-infezioni.
Il vaccino russo
Il candidato vaccino sviluppato dai ricercatori russi sfrutta la piattaforma mRNA, ampiamente collaudata durante la pandemia del Covid-19.
Trasmette alle cellule competenti un “codice” con le istruzioni necessarie per difendersi dal virus dell’encefalite da zecche.
Nelle prove condotte in laboratorio ha dimostrato:
– un’alta maggiore efficacia protettiva
– tempi e costi di produzione ridotti
– modalità di somministrazione semplificate.
Un cauto ottimismo
Il nuovo prototipo vaccinale pare molto promettente, ma è necessario attendere ulteriori prove scientifiche per avere certezza della sua portata innovativa.
Resta tuttavia il fatto che inaugura un nuovo scenario per la prevenzione dell’encefalite da zecche, una malattia seria e potenzialmente grave, purtroppo in aumento per la sempre maggiore diffusione di zecche e l’emergere di zecche infette in nuovi territori.
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Un team di scienziati cinesi ha annunciato la scoperta di un nuovo virus trasmesso dalle zecche. È stato chiamato provvisoriamente “Xue-Cheng Virus” (XCV), dal nome nativo di Mudanjiang, la città della Cina nord-orientale dove è stato identificato.
A darne notizia è il New England Journal of Medicine e secondo i dati pubblicati sarebbero almeno 26 le persone infettate, alcune in forma grave.
Cosa sappiamo del nuovo virus
Le indagini si sono svolte tra il 2022 e il 2024 a seguito di diverse malattie febbrili di origine sconosciuta, sviluppate da persone dopo aver subito un morso di zecca.
Le analisi condotte sui campioni di sangue di 252 pazienti hanno consentito di identificare la causa delle febbri in un nuovo Orthonairovirus della famiglia Nairoviridae, mai isolato prima negli esseri umani o in animali. In seguito alla scoperta gli scienziati hanno individuato i primi 26 casi di malattia.
Cosa provoca
L’infezione del Xue-Cheng Virus ha sintomi poco caratteristici.
Le manifestazioni cliniche variano “da forme febbrili acute e aspecifiche, a malattie gravi che rendono necessario il ricovero in ospedale”.
Le persone colpite dal virus portano i segni della sua diffusione negli organi interni, mostrando negli esami del sangue:
– una riduzione di globuli bianchi e piastrine
– un aumento dei valori degli enzimi del fegato (sofferenza epatica),
– una variazione patologica di alcuni enzimi e proteine indotta dall’infiammazione acuta di vari organi e apparati.
Al momento non esiste una terapia specifica e l’infezione viene trattata con cure di supporto.
Come si trasmette
Il contagio avviene con il morso di zecche infette, in particolare delle zecche:
– Haemaphysalis concinna
– Haemaphysalis japonica.
Il virus di Xue-Cheng è stato rilevato infatti nel 6% delle Haemaphysalis concinna e nel 3,2% delle Haemaphysalisjaponica rinvenute nell’area dove si sono registrati i casi di infezione.
Si tratta di zecche già note come vettori di malattie insidiose e talvolta gravi.
Le zecche Haemaphysalis concinna, in particolare, sono conosciute come vettori:
– della tularemia
– dell’encefalite russa primaverile-estiva
– della TBE (encefalite da zecche).
Sono inoltre collegate ai casi di infezione da Wetland virus o “virus delle zone umide” (WELV) descritto per la prima volta nel 2024 ed emerso sempre in Cina.
L’attenzione della comunità internazionale
L’espansione geografica del Xue-Cheng Virus dentro e fuori i confini cinesi è attualmente sconosciuta. La sua identificazione ha tuttavia catturato l’attenzione della comunità scientifica internazionale stante la diffusione della Haemaphysalis concinna, la zecca maggiormente responsabile della circolazione virale.
Uno studio del 2018 coordinato dall’Università di Vienna ne segnala la presenza anche in Europa, con un cluster nell’area di confine tra Austria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria, dove risulta “la seconda specie di zecca più abbondante dopo l’Ixodes ricinus (la comune zecca dei boschi) raccolta dagli uccelli e trasportata su lunghe distanze”.
Non ci sono tuttavia dati sulla prevalenza di esemplari infetti e sugli agenti infettivi ospitati dalle zecche H. concinna nel territorio europeo.
Resta quindi auspicabile una cooperazione a livello globale tra le istituzioni scientifiche e sanitarie per monitorare il virus e prevenire la sua diffusione in aree più ampie.
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Fonte immagine: MVDr. David Modrý, Ph.D. – www.biolib.cz/en/image/id17507/
Per i frequentatori del Parco Naturale del Gran Bosco di Salbertrand e del Parco Orsiera Rocciavrè, in Piemonte, vi è la concreta possibilità di esporsi al morso di zecche potenzialmente infette con l’agente della malattia di Lyme. In caso di escursioni o attività nelle due aree naturali è quindi fortemente raccomandata l’adozione di misure di prevenzione personale.
Lo sottolinea il monitoraggio presentato lo scorso 28 gennaio dal Dipartimento di Scienze Veterinarie dell’Università di Torino nell’ambito del progetto sull’espansione geografica delle zecche e la ricerca di agenti di zoonosi nei due siti naturalistici.
I dati si riferiscono alle indagini realizzate nel 2024 in zone ad alta frequentazione da parte di turisti e cercatori di funghi.
Le aree di studio
I siti monitorati si trovano :
– ad un’altitudine compresa tra 1015 e 1890 metri nei comuni di Salbertrand e Oulx
– ad un’altitudine compresa tra 1170 e 1730 metri nel comune di Villar Focchiardo.
Riguardano aree con una forte vocazione turistica, meta abituale di visitatori, escursionisti e appassionati di funghi.
Le zecche sono state raccolte in tutte le rilevazioni effettuate da maggio a ottobre, indicando l’alto rischio delle aree interessate.
Il parco naturale Gran Bosco di Salbertrand
L’area protetta è monitorata dal 2016.
Presenta una fitta rete di percorsi escursionistici, con ben sedici sentieri segnalati, per una lunghezza di circa 70 chilometri, che percorrono il territorio dal fondovalle alla cresta. Ospita itinerari di rilevanza internazionale (come la Via Alpina, il Glorioso Rimpatrio dei Valdesi, la Grande Traversata delle Alpi e la Via Francigena) e punti di accoglienza per escursioni e soggiorni.
Il parco naturale Orsiera Rocciavré
È monitorato dal 2023. Si trova nella parte settentrionale delle Alpi Cozie, sui territori di pertinenza delle Valli Chisone, Susa e Sangone.
Ha una rete capillare di sentieriche permette facili passeggiate di poche ore, lunghi trekking di più giorni o traversate da una valle all’altra (Grande Traversata delle Alpi e Giro dell’Orsiera).
Ospita due storiche costruzioni:
– la Certosa di Montebenedetto (Comune di Villar Focchiardo) risalente al 1200, aperta al pubblico nel periodo estivo e dotata di foresteria
– il Forte di Fenestrelle (Val Chisone), la più grande fortezza delle Alpi, costruita a partire dal 1728 per difendere il confine tra Savoia e Francia. La struttura è aperta al pubblico e sede di spettacoli culturali.
L’esito delle rilevazioni
Nel parco del Gran Bosco sono state raccolte 581 zecche dalla vegetazione.
La maggior parte (577 esemplari) è stata identificata come Ixodes ricinus, la comune zecca dei boschi, primario vettore della malattia di Lyme. Molto più limitata (4 esemplari) la rilevazione di Dermacentor marginatus, la cosiddetta zecca della pecora, vettore dell’encefalite da zecche (Tbe) e soprattutto della babesioni canina.
Le zecche sono risultate presenti in tutto il periodo di raccolta (da maggio a ottobre) con rilevazioni di esemplari di Ixodes ricinus a quote superiori ai 1800 metri.
Nell’Orsiera Rocciavré sono state raccolte 358 zecche, tutte identificate come Ixodes ricinus (zecca dei boschi).
Sono risultate presenti in tutti i siti campionati e per l’intero periodo di raccolta (da maggio a ottobre).
Malattia di Lyme: un rischio concreto
Poiché le zecche Ixodes ricinus sono note come agenti della malattia di Lyme, la loro assidua rilevazione sottolinea:
– la concreta possibilità di subire punture infettanti sia nel parco del Gran Bosco, sia nel parco Orsiera Rocciavré
– il maggior rischio stagionale durante il periodo primaverile ed estivo
– la necessità di adottare comportamenti e misure di prevenzione da parte di quanti frequentano le due aree naturali per finalità turistiche, professionali e di svago.
Tra le misure raccomandate vi è il controllo di abiti, zaini, attrezzature e soprattutto l’ispezione accurata del corpo al ritorno da una camminata, così da individuare subito la presenza di eventuali zecche, che vanno prontamente rimosse.
Un’importante informazione diagnostica
Le zecche raccolte nell’Orsiera Rocciavrè sono risultate infette da un’unica genospecie di Borrelia, il battere responsabile della malattia di Lyme. Si tratta della la Borrelia afzelii, associata alle manifestazioni cutanee della malattia, i cui sintomi più frequenti sono:
– eritema migrante
– eritemi migranti multipli
– stanchezza.
Va tuttavia ricordato che il morbo di Lyme può determinare anche il coinvolgimento del sistema nervoso, del cuore, delle articolazioni e presentarsi con:
– mal di testa discontinuo, raramente molto forte
– dolore
– paralisi dei nervi cranici, in particolare del nervo facciale su uno o entrambi di lati del viso (paralisi di Bell).
Si tratta di importanti informazioni diagnostiche in grado di agevolare il riconoscimento della malattia di Lyme e favorire una rapida e corretta terapia, portando alla guarigione.
Gli impegni per il 2025
L’Università di Torino proseguirà il monitoraggio nel parco del Gran Bosco e nel parco Orsiera Rocciavré anche nel 2025.
In entrambe le aree le indagini saranno affiancate da nuove analisi biomolecolari per individuare gli agenti patogeni presenti nelle zecche e i possibili rischi per i visitatori.
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Fonte immagine:https://www.parchialpicozie.it/it/p/gran-bosco-di-salbertrand/
Un recente studio dell’Università della Lorena (F), pubblicato sull’ International Journal of Health Geographics, segnala la diffusa presenza di zecche nei giardini e nei cortili privati, anche in aree densamente popolate e sollecita campagne di informazione volte a far conoscere i potenziali rischi per la salute.
I ricercatori rimarcano due dati sui cui riflettere:
– il 32% degli spazi verdi situati in prossimità delle abitazioni è infestato da zecche anche in contesti fortemente urbanizzati
– il 30% dei morsi di zecca avviene in giardini e cortili domestici.
Da qui l’invito a promuovere una maggiore consapevolezza sui pericoli nascosti nelle aree residenziali e sull’importanza di adottare misure preventive per ridurre il possibile contatto con le zecche.
Le caratteristiche dei giardini
Lo studio francese – realizzato nei pressi di Nancy, una città nel nord-est della Francia – delinea una maggiore e più diffusa presenza di zecche nei giardini e cortili con:
– cespugli, siepi e alberi
– lettiere di foglie e cataste o cumuli di legna
– segni relativi al passaggio di fauna selvatica (in particolare di cervi).
Le indagini condotte in 185 appezzamenti privati individuano nella copertura vegetale, nei depositi di legname e nella facilità di accesso agli animali selvatici le principali cause di infestazione, indicandole come elementi che aiutano l’insediamento e la sopravvivenza delle zecche.
In particolare:
– l’abbondanza di alberi e arbusti favorirebbe un microhabitat ideale per il riparo delle zecche durante l’inverno
– l’occasionale avvicinamento della fauna selvatica porterebbe all’introduzione di zecche acquisite altrove
– l’agevole contatto con persone e animali domestici garantirebbe la regolare alimentazione delle zecche, con possibilità di riprodursi e colonizzare stabilmente cortili e giardini.
Dove fare attenzione
La ricerca segnala le aree ombreggiate e ricche di vegetazione come ambienti ad alto rischio, con una probabilità quasi triplicata di ospitare zecche rispetto alle zone esposte al sole.
In tali aree raccomanda grande prudenza durante i lavori di giardinaggio e nell’eventualità di sosta, giochi e pause di relax, soprattutto nel periodo compreso tra inizio primavera e autunno inoltrato.
I pericoli per la salute
Lo studio francese dimostra l’aumentato rischio di subire morsi di zecca e di esporsi alla trasmissione di malattie infettive potenzialmente serie in una pluralità di ambienti che vanno dalle zone boschive di montagna, agli spazi verdi urbani, ai cortili e giardini delle aree cittadine, anche in contesti densamente popolati.
Incoraggia nuove indagini per identificare caratteristiche locali e paesaggistiche delle aree dove le zecche possono insediarsi e incoraggia iniziative di sensibilizzazione alla popolazione per promuovere comportamenti e misure di prevenzione utili a mitigare l’impatto sulla salute.
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I ricercatori dell’Università della California Riverside hanno scoperto una molecola vegetale – il metabolita MEcPP – capace di avere “un effetto sorprendente” sui batteri: sarebbe capace di interrompere lo sviluppo del biofilm, l’involucro protettivo che impedisce l’azione degli antibiotici.
La scoperta apre la strada a nuove forme di lotta alle infezioni batteriche e lascia intravvedere implicazioni positive per la cura di molte malattie a decorso cronico come le infezioni dell’osso (osteomieliti) e delle valvole cardiache (endocarditi) ma anche per la malattia di Lyme, soprattutto nei casi di insuccesso delle terapie.
Biofilm e malattia di Lyme
La Borrelia burdorferi, il batterio responsabile della malattia di Lyme, ha la capacità di formare biofilm diventando resistente agli antibiotici. Questo suggerisce che i biofilm svolgono un ruolo importante nel mancato effetto dei trattamenti e nello sviluppo delle forme persistenti.
I biofilm sono una sorta di “pellicola protettiva” autoprodotta dai batteri per:
– eludere l’azione difensiva del sistema immunitario
– resistere all’azione degli antibiotici.
La presenza di forme latenti di Borrelia in fase di biofilm potrebbe quindi spiegare l’insuccesso delle cure e la persistenza dei sintomi.
Il valore della scoperta
I biofilm rendono le infezioni più difficili da trattare poiché aiutano i batteri a resistere agli antibiotici e all’azione degli anticorpi.
Per la formazione dei biofilm i batteri sfruttano strutture simili a peli, chiamate fimbrie, che secernono una matrice protettiva verso gli antibiotici. Senza fimbrie la formazione del biofilm non sarebbe possibile.
Attraverso lo screening genetico di oltre 9.000 batteri, il team californiano ha identificato un gene – denominato fimE – che agisce come un interruttore e spegne la produzione di fimbrie.
Il gruppo di ricerca ha inoltre osservato che il metabolita vegetale MEcPP, prodotto dalle piante in condizioni di stress, potenzia l’attività del gene e aumenta l’espressione di fimE, impedendo ai batteri di produrre fimbrie e formare biofilm.
Le possibili implicazioni
La scoperta – ha dichiarato il responsabile del gruppo di ricerca – potrebbe ispirare strategie di prevenzione del biofilm in diversi settori e in un prossimo futuro aiutare gli esseri umani a combattere le minacce batteriche”.
A questo riguardo i ricercatori hanno dimostrato che la molecola MEcPP ha un effetto particolarmente efficace sul batterio Escherichia coli, responsabile di infezioni gastrointestinali e urinarie di varia entità. Lo studio è pubblicato sulla rivista Nature Communications.
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Fonte immagine: Wikipedia https://it.m.wikipedia.org/wiki/File:Borrelia_burgdorferi_%28CDC-PHIL_-6631%29_lores.jpg
Dopo la pausa natalizia, siamo di nuovo operativi con le news! Ma c’è di più: stiamo lavorando dietro le quinte per rinnovare completamente il sito.
Le novità in cantiere
Restyling, per un look più accattivante e moderno.
Navigazione migliorata, per accedere alle notizie in modo più rapido e intuitivo.
Sezioni riorganizzate, per rendere il sito ancora più chiaro e facile da usare.
Nuovi contenuti, per far crescere l’informazione sulla malattia di Lyme e le altre infezioni trasmesse dal morso di zecca.
Il rifacimento del sito è ancora in progress, ma ci stiamo impegnando e vi aggiorneremo sugli avanzamenti del progetto.
Grazie per la vostra pazienza e il continuo supporto.