L’Eritema migrante, manifestazione tipica della malattia di Lyme iniziale, ha una durata maggiore quando la malattia coinvolge il sistema nervoso (neuroborreliosi di Lyme). Lo conferma un’indagine del Centro medico universitario di Lubiana (Slovenia), pubblicata a febbraio sulla rivista scientifica Pathogens.
Sulla base di oltre 15 anni di osservazioni cliniche lo studio dimostra la presenza dell’Eritema per un periodo più lungo in caso di sintomi neurologici, avanzando l’ipotesi che il tardivo riconoscimento e trattamento della lesione siano alla base della sua persistenza e la possibile causa delle manifestazioni a carico del sistema nervoso.
Le indagini realizzate
Lo studio poggia sui dati clinici di:
– 194 pazienti con eritema migrante associato a sintomi suggestivi di neuroborreliosi (46 pazienti) o con diagnosi di neuroborreliosi (148 pazienti)
– 12.384 pazienti con eritema migrante senza coinvolgimento del sistema nervoso.
Evidenzia nei 194 pazienti con sintomatologia neurologica:
– una durata media dell’Eritema migrante di 30 giorni: tre volte superiore a quella di 12.384 pazienti senza segni neurologici (durata media 10 giorni)
– un’espansione dell’Eritema migrante fino a 20 centimetri di diametro, contro i 13 centimetri del gruppo di controllo
– il mancato trattamento dell’Eritema migrante nel 63,9% dei casi e l’inizio di una terapia inadeguata in un ulteriore 25,3% di casi.
I ritardi nella diagnosi
L’indagine segnala inoltre che la diagnosi dell’Eritema migrante nei pazienti con sintomi neurologici:
– ha registrato tempi significativamente più lunghi rispetto ai pazienti senza coinvolgimento del sistema nervoso (in media 30 giorni invece di 10)
– si è talora associata al mancato riconoscimento dell’Eritema migrante quale sintomo della malattia di Lyme o alla comparsa dell’Eritema in sedi difficili da visualizzare, come la parte posteriore:
– della testa
– del collo
– del tronco
– della coscia
– del ginocchio.
La raccomandazione
Per i ricercatori sloveni la popolazione dev’essere costantemente incoraggiata:
– a esaminare sistematicamente la propria pelle per diverse settimane in caso di puntura di zecca o di possibile esposizione alle zecche
– a consultare un medico qualora osservi la comparsa di un arrossamento su qualsiasi parte del corpo
– a diventare consapevole che potrebbe trattarsi di una manifestazione iniziale della malattia di Lyme.
Il messaggio
L’Eritema migrante è l’unica manifestazione clinica della malattia di Lyme sufficientemente distintiva da consentire una diagnosi clinica senza necessità di test di laboratorio.
Si presenta come un’eruzione cutanea in espansione nel sito del morso di zecca e compare alcuni giorni o settimane dopo la puntura infettante. Poiché il morso di zecca è di solito indolore e può passare facilmente inosservato è necessario raccomandare a quanti vivono o frequentano aree a rischio:
– di ispezionare con regolarità il proprio corpo, comprese le parti di difficile osservazione
– ricorrere a un medico nell’eventualità di lesioni sulla pelle.
Il tempestivo riconoscimento dell’Eritema migrante consente di iniziare un’appropriata terapia antibiotica e può impedire lo sviluppo di altre manifestazioni cliniche della malattia di Lyme.
Al contrario la mancata o ritardata diagnosi dell’Eritema migrante e un trattamento tardivo o inadeguato possono avere serie conseguenze a carico del sistema nervoso, oltre che delle articolazioni e del cuore.
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Più della metà dei pazienti con cardite di Lyme riceve un pacemaker per una “condizione facilmente curabile con gli antibiotici”. Accade in Svezia e a rivelarlo sono i ricercatori dell’università di Göteborg, secondo i quali gli stessi risultati sono “generalizzabili ad altri paesi europei”.
L’indagine pubblicata sul numero di febbraio della rivista Open Forum Infectios Diasease riporta i risultati di una ricerca condotta sui registri nazionali svedesi tra il 2010 e il 2018 e stima che il 59% delle persone colpite da cardite di Lyme in Svezia corre il rischio di ricevere impianti di pacemaker permanenti, non necessari.
Che cos’è la cardite di Lyme
È una manifestazione precoce, ma fortunatamente rara, della malattia di Lyme (0,3%-4% dei casi). Si verifica quando la malattia coinvolge il cuore.
Può essere curata in modo efficace con antibiotici e la maggior parte dei pazienti guarisce completamente entro poche settimane di terapia.
Purtroppo può presentarsi con un blocco della conduzione atrioventricolare di alto grado, un’anomalia cardiaca che provoca la totale o parziale interruzione dell’impulso elettrico dagli atri ai ventricoli e determina l’impianto di un pacemaker.
Il mancato riconoscimento della cardite di Lyme può quindi portare un’alta percentuale di pazienti a non ricevere il corretto trattamento.
La diagnosi
Non esistono linee guida definitive per la diagnosi e la gestione della cardite di Lyme.
Usualmente, il riscontro dell’anomalia cardiaca in combinazione con una sierologia positiva per malattia di Lyme è ritenuto sufficiente per sospettare la patologia, soprattutto in caso di pazienti che abitano, lavorano, frequentano o provengono da una zona endemica, hanno meno di 50 anni, accusano sintomi associati di:
– ottundimento
– pre-sincope/sincope
– respiro corto
– dolore toracico
dopo un morso di zecca (anche a distanza di mesi) e talora associati a eritema migrante.
Una preoccupazione fondata
L’identificazione della cardite di Lyme in pazienti con blocco atrioventricolare di alto grado è fondamentale per intraprendere un tempestivo trattamento e per prevenire i rischi intrinseci all’impianto di un pacemaker permanente (infezioni, complicanze periprocedurali, effetti psicologici).
È quindi importante aumentare la consapevolezza tra i cardiologi della cardite di Lyme come causa di blocco atrioventricolare.
L’indicazione
Poiché la cardite di Lyme è facilmente curabile e nella maggior parte dei casi è completamente reversibile, diffondere e migliorare la sua conoscenza può portare a:
– una diagnosi precoce
– un pronto e risolutivo trattamento antibiotico
contribuendo a ridurre il numero di pazienti “inutilmente sottoposti a impianto di pacemaker definitivo”.
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Fonte immagine https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0735109718394427
Gestire la malattia di Lyme, o il sospetto di malattia, con un percorso diagnostico-terapeutico alternativo al sistema sanitario pone a carico dei pazienti notevoli costi economici e sociali.
È quanto evidenzia per la prima volta uno studio francese, realizzato dal Centro ospedaliero universitario di Clermont-Ferrand, il quale sottolinea come l’esecuzione di “esami non raccomandati” (dalle linee guida internazionali) e il ricorso a trattamenti non convenzionali siano fonte di spese elevate e possano tradursi in “cattiva gestione” della malattia.
Lo studio indica in particolare cinque voci di spesa interamente a carico dei pazienti:
– perdita di produttività
– terapie alternative
– test biologici ripetuti e inviati all’estero
– automedicazione
– trasporti.
Il confronto degli oneri economici
L’indagine menziona anche le cifre, mettendo a confronto l’entità dei costi a carico del paziente a seconda del percorso seguito.
Le risultanze sono contenute nella tabella riportata a fianco e indicano oneri sensibilmente più elevati per i percorsi informali.
La scelta dei pazienti
I ricercatori francesi sottolineano che la scelta di ricorrere a percorsi diagnostico-terapeutici informali per gestire la malattia di Lyme è spesso legata a una “interazione negativa” fra paziente e servizi sanitari e può verificarsi soprattutto quando il paziente:
– consulta diversi medici e specialisti
– non ottiene una diagnosi certa e un trattamento in grado di risolvere i sintomi
– affronta disagi psicologici.
A monte di tale situazione vi è spesso:
– una presentazione della malattia con manifestazioni atipiche, simili ad altre patologie
– una controversa interpretazione del quadro clinico e degli accertamenti diagnostici
– la persistenza di sintomi dopo il trattamento antibiotico.
Le indicazioni scaturite dallo studio
Lo studio si conclude con questa raccomandazione:
“Occorre far comprendere ai pazienti e ai medici di base che il ricorso ad un iter informale per la malattia di Lyme comporta non solo la prescrizione di esami medici e cure prolungate, nessuna delle quali consigliata, ma anche notevoli costi aggiuntivi, che sono in gran parte a carico del paziente.
Le conseguenze di questi trattamenti alternativi non sono solo mediche ma anche sociali, con un impatto significativo sui pazienti” e talora sulla loro qualità di vita.
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Dopo Lecco l’allerta per l’encefalite da zecche (Tbe) si estende a tutto il territorio lombardo. A raccomandare attenzione per possibili casi di malattia nell’intera Regione è uno studio realizzato dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale della Lombardia ed Emilia Romagna (IZSLER), pubblicato sul numero di febbraio di Emerging Infectious Disease.
Le ricerche condotte dall’IZSLER in collaborazione con il Policlinico San Matteo e l’Università di Pavia documentano un caso a Bergamo e la circolazione del Tbe-virus nella fauna selvatica.
La diffusione a Nord-Ovest
Per i ricercatori dell’Istituto Zooprofilattico l’encefalite da zecche, per lungo tempo confinata quasi esclusivamente al Triveneto (con alcune segnalazioni in Emilia-Romagna), ha iniziato a diffondersi nel Nord Ovest italiano.
Per ora l’espansione geografica sembra limitata alla Lombardia, senza rilevazioni del virus in Piemonte.
La possibile spiegazione sta nella collocazione geografica della regione lombarda, posta a confine con la Svizzera e con i territori di Veneto e Trentino Alto-Adige dove la Tbe è endemica.
Il caso di Bergamo
L’unico caso finora documentato di malattia riguarda un cacciatore di 49 anni ricoverato presso l’Ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo.
L’interessato è risultato positivo agli esami per il Tbe-virus ed ha riferito:
– di essere stato morso da una zecca in Val Brembana un mese prima del ricovero
– di avere poi sviluppato febbre e affaticamento, seguiti pochi giorni dopo da sintomi neurologici che includevano mancanza di coordinazione e di equilibrio.
Dopo le dimissioni ha continuato ad accusare:
– dolori (mialgia)
– affaticamento
– disturbi della concentrazione
– vuoti di memoria.
La severità dei sintomi conferma il carattere potenzialmente grave dell’encefalite da zecche, spesso responsabile di complicanze a lungo termine.
I risultati delle rilevazioni
Le indagini compiute dall’IZSLER dimostrano la presenza della Tbe nell’Italia nordoccidentale e indicano l’importanza di:
– sensibilizzare la popolazione e in particolare le fasce ad alto rischio, come cacciatori, escursionisti e agricoltori, sui rischi per la salute legati al morso di zecca;
– promuovere “misure preventive immediate”, compresa la vaccinazione, per evitare ulteriori casi clinici di Tbe negli esseri umani
– controllare il latte crudo e la produzione casearia tradizionale per evitare la possibile trasmissione alimentare del Tbe-virus.
Le implicazioni per la salute pubblica
Insieme all’allerta sulla potenziale diffusione dell’encefalite da zecche in tutta la Lombardia gli studi dell’IZSLER :
– sensibilizzano i medici a prestare attenzione ai sintomi neurologici compatibili con la Tbe
– indicano ai veterinari la necessità di individuare analoghi sintomi negli animali, segnalando gli avvenuti riscontri di atassia, tremori muscolari, incoordinazione e deglutizione frequente in esemplari di fauna selvatica
– evidenziano la necessità di informare e sensibilizzare la popolazione sull’adozione di idonee misure di prevenzione.
Tbe e malattia di Lyme
Le stesse zecche responsabili della Tbe sono in grado di trasmettere anche la malattia di Lyme.
Da qui l’importanza di fare attenzione pure alla comparsa di:
– “arrossamenti” sulla pelle che tendono lentamente a espandersi, (potrebbe trattarsi di eritema migrante, prima manifestazione della malattia di Lyme)
– paralisi dei nervi facciali (segnale frequente di neuroborreliosi di Lyme)
– dolori che si “spostano” da un’articolazione all’altra (dolori migranti) con frequente coinvolgimento di una sola articolazione, spesso rappresentata dal ginocchio, oppure da un polso, una spalla, un gomito, una caviglia o dall’anca (indizio di eventuale artrite di Lyme).
Al pari della Tbe anche la malattia di Lyme può avere un decorso serio e impegnativo. Il suo riconoscimento precoce e un pronto trattamento antibiotico consentono tuttavia la completa guarigione nella maggior parte dei casi.
Per entrambe le infezioni resta fondamentale la prevenzione, evitando i morsi di zecca.
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Il vaccino sviluppato da Pfizer e Valneva contro la malattia di Lyme, noto come “VLA 15”, ha ripreso la sperimentazione clinica sull’uomo (sperimentazione di Fase 3) con partecipanti di età compresa tra 9 e 90 anni. La previsione è di concludere i test entro il 2025 e, supponendo risultati positivi, di immettere il vaccino sul mercato nel 2026.
Si è dunque concluso il lungo stop deciso dalle aziende produttrici un anno fa, a seguito delle preoccupazioni emerse sulla “cattiva condotta” di alcuni centri di sperimentazione americani.
Cosa è successo
I test clinici sul vaccino anti-Lyme sono iniziati nell’agosto 2022.
Lo studio, chiamato VALOR, ha previsto di:
– reclutare oltre 5mila volontari in America, Europa e Canada
– somministrare ai partecipanti 3 dosi di vaccino il primo anno e una dose di richiamo dopo 9-12 mesi
– organizzare la sperimentazione anche con appaltatori terzi per concludere i test entro il 2024
– svolgere le attività nel puntuale rispetto dei protocolli internazionali volti a garantire la sicurezza dei pazienti e l’integrità dei dati.
A febbraio 2023 Pfizer e Valneva hanno però comunicato:
– l’interruzione dello studio clinico in alcuni siti americani
– lo stralcio di 3.000 partecipanti, circa la metà dei volontari reclutati.
Alla base della decisione alcune presunte violazioni degli standard internazionali di qualità etica e scientifica da parte di un appaltatore esterno.
Le società hanno inoltre deciso di informare la FDA, l’Agenzia statunitense preposta alla vigilanza e regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, dichiarando la più ampia collaborazione a far luce su quanto accaduto.
L’esito dei controlli
Pfizer e Valneva non hanno mai indicato il nome dell’appaltatore responsabile degli illeciti ipotizzati.
Il nome è comparso dopo le ispezioni disposte dalla FDA e l’accertata assenza di irregolarità nelle pratiche cliniche.
A comunicarlo è stata l’azienda interessata, la Care Access di Boston, che ha dichiarato di aver agito in conformità alle norme e con piena garanzia della sicurezza dei pazienti.
La ripresa dei test clinici
Nonostante l’assenza di illeciti Pfizer e Valneva hanno comunque deciso di riprendere la sperimentazione con nuovi volontari.
L’arruolamento dei candidati si è concluso lo scorso dicembre e nel gennaio di quest’anno Pfizer ha annunciato l’inizio delle somministrazioni ai nuovi partecipanti che continueranno fino al 2025.
Complessivamente il vaccino di Pfizer e Valneva sarà testato su 9.437 volontari, interessando siti americani, canadesi ed europei dove la malattia di Lyme è altamente endemica.
Un anno di ritardo
Gli esiti completi dei trial clinici sull’efficacia, la sicurezza e l’immunogenicità del vaccino – l’unico al momento in sperimentazione sull’uomo – sono attesi per la fine del prossimo anno. In pratica 12 mesi più tardi rispetto alle previsioni iniziali.
Se i risultati saranno positivi, le aziende produttrici presenteranno le domande per l’autorizzazione alla commercializzazione negli Stati Uniti e in Europa nel 2026.
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fonte immagine https://www.newscientist.com/
Una malattia complessa, in costante aumento, ma ancora poco sconosciuta e capace di porre impegnative sfide diagnostiche.
È il ritratto della malattia di Lyme scaturito dai due webinar promossi dall’Associazione Lyme Italia e coinfezioni il 26 gennaio e il 2 febbraio scorsi. Entrambi gli eventi sono stati realizzati in collaborazione con il GISML-Gruppo italiano per lo studio della malattia di Lyme, gli Istituti Fisioterapici Ospitalieri, l’Istituto Dermatologico San Gallicano e si sono avvalsi della direzione scientifica della dott. Fulvia Pimpinelli e del prof. Maurizio Ruscio.
I due appuntamenti – ha sottolineato la presidente dell’Associazione, dottoressa Daniela Colombo – si sono rivolti a medici e operatori sanitari presentando le tante manifestazioni cliniche della malattia, con particolare accento su quelle meno caratteristiche e conosciute e con un focus sul trattamento delle cosiddette forme “croniche”, che oggi costituiscono uno degli aspetti più rilevanti e dibattuti dell’infezione.
I diversi “volti” di Lyme
Le 11 relazioni tenute dagli esperti hanno confermato il carattere multiforme della malattia di Lyme, in grado di determinare un’ampia varietà di sintomi: dal tipico eritema migrante nella zona del morso di zecca al coinvolgimento sistemico, responsabile di problemi neurologici, cardiologici e articolari di varia gravità.
Hanno segnalato inoltre il peso delle coinfezioni e la loro capacità di:
– esacerbare la malattia
– alterare la sua presentazione clinica
– concorrere a fenomeni di resistenza alla terapia antibiotica.
Gli esami di laboratorio
Sul fronte della diagnosi i webinar hanno:
– rimarcato il ruolo dei test sierologici che “rimangono gli ausili diagnostici più utili e ampiamente disponibili”
– illustrato le prestazioni dei test di nuova generazione
– sottolineato l’affidabilità del protocollo a due livelli
– segnalato l’importanza di interpretare i risultati secondo criteri convalidati.
L’efficacia delle cure
I due webinar hanno confermato l’elevata efficacia dei protocolli di terapia indicati dalle linee guida internazionali in presenza di:
– una diagnosi corretta e tempestiva di malattia di Lyme
– la pronta somministrazione di un adeguato trattamento antibiotico.
Hanno tuttavia rimarcato la difficile gestione dei casi derivanti da diagnosi ritardate o mancate e presentato alcuni degli studi più recenti sul trattamento delle forme di malattia più severe.
Il progetto BABEL
Tra le ricerche volte ad offrire nuovi ed efficaci percorsi di cura per i pazienti colpiti da malattia di Lyme si inserisce il progetto BABEL – “Analisi della produzione di biofilm e della tolleranza agli antibiotici in Borrelia burgdorferi sensu stricto e sensu lato” presentato al webinar del 2 febbraio dall’IRCCS San Gallicano di Roma.
Il biofilm è una sorta di “pellicola protettiva”, autoprodotta dai batteri responsabili della malattia di Lyme (spirochete del complesso Borrelia burgdorferi), che permette loro di:
– eludere l’azione difensiva del sistema immunitario
– resistere ai trattamenti antibiotici.
La presenza di forme latenti di Borrelia in fase di biofilm potrebbe quindi spiegare il mancato effetto delle terapie e i casi di malattia persistente.
Muovendo da questo presupposto il progetto – finanziato dall’Associazione Lyme Italia e coinfezioni e realizzato dal San Gallicano in collaborazione con l’università Sapienza di Roma e l’università di Lubiana – si è posto l’obiettivo di “valutare l’efficacia degli antibiotici contro isolati di Borrelia in fase di biofilm, al fine di definire strategie e protocolli terapeutici mirati in termini di dose e durata dei trattamenti”.
Di carattere sperimentale invece la proposta avanza dal dott. Richard Horowitz (USA) per il trattamento dei sintomi persistenti. Prevede l’impiego di una terapia combinata con alte dosi di dapsone, un farmaco già utilizzato nella cura della lebbra, i cui risultati sembrano promettenti.
In proposito è scaturita l’ipotesi di una collaborazione internazionale per:
– verificare con metodo scientifico gli esiti del trattamento
– stabilirne l’efficacia a livello universale.
Oltre i confini nazionali
A breve i webinar del 26 gennaio e 2 febbraio saranno disponibili anche “on demand” (per la durata di 12 mesi), in lingua italiana e inglese.
Una novità – ha spiegato la presidente Colombo – che nasce da due ordini di esigenze:
– condividere i contenuti a livello internazionale (l’Associazione Lyme Italia e coinfezioni aderisce alla rete mondiale Lyme Global)
– rendere gli stessi contenuti accessibili a tutti coloro che si occupano della malattia a livello clinico, diagnostico, terapeutico o per finalità di ricerca.
La collaborazione con il GISML
Peculiarità rilevante dei due webinar – ha dichiarato il presidente del GISML, Ruscio – è stata quella di mettere il mondo scientifico in condizione di interrogarsi sulla malattia di Lyme per dare risposte sempre più aggiornate in termini di diagnosi e trattamenti terapeutici.
Da qui l’importanza del ruolo svolto dall’associazione Lyme Italia e coinfezioni che ha creato, di fatto, un anello di congiunzione fra ricerca e clinica, dando a medici e operatori sanitari strumenti sempre più aggiornati per la cura dei pazienti e la prevenzione delle forme più severe di malattia.
Un’esigenza quanto mai attuale, dal momento che la malattia di Lyme è in continua crescita ed è oggi presente anche in regioni e paesi fino a pochi anni fa considerati indenni.
Una ricerca della Tulane University (USA) ha rilevato “la maggiore efficacia di una combinazione di antibiotici nel trattamento della malattia di Lyme rispetto al ciclo comunemente prescritto di un singolo antibiotico”.
La scoperta, pubblicata su Frontiers in Microbiology, fa seguito a una serie di sperimentazioni condotte in laboratorio su un modello murino e potrebbe aprire la strada a nuove cure, in particolare nei casi di mancata risposta al trattamento antibiotico standard.
I ricercatori hanno tuttavia commentato i risultati con cautela, indicando la necessità di “ulteriori studi preclinici sulle terapie antibiotiche combinate”.
Le prove sui farmaci
Lo studio ha analizzato quattro doppie combinazioni di antibiotici:
– doxiciclina e ceftriaxone
– dapsone e rifampicina
– dapsone e clofazimina
– doxiciclina e cefotaxime
e tre triple combinazioni:
– doxiciclina, ceftriaxone e carbomicina;
– doxiciclina, cefotaxime e loratadina;
– dapsone, rifampicina e clofazimina.
La ricerca ha utilizzato i farmaci sia in monoterapia, sia nelle diverse combinazioni e ha condotto specifici test sul trattamento delle infezioni persistenti causate dal permanere di forme vitali di Borrelia – il battere responsabile della malattia di Lyme – dopo un ciclo antibiotico standard. I relativi casi sono stati identificati con molteplici metodi di rilevamento dell’agente infettivo.
Risultati
La sperimentazione condotta sui topi ha rilevato che:
– la monoterapia non sempre è in grado di eradicare completamente l’infezione
– nei casi di malattia persistente nessuno dei singoli antibiotici è risultato efficace dopo un ciclo di trattamento di 28 giorni
– le diverse combinazioni di farmaci hanno invece dato prova di poter debellare efficacemente l’infezione di lungo termine.
Per il team di ricerca gli esiti ottenuti “forniscono dati per dimostrare ulteriormente:
– la possibile persistenza della Borrelia dopo la monoterapia
– il potenziale della terapia di combinazione per prevenire l’infezione persistente dovuta all’azione della Borrelia
– la fattibilità di un regime terapeutico alternativo alla monoterapia per il trattamento dell’infezione disseminata che può portare alla malattia di Lyme post-trattamento (PTLDS)”.
Le prospettive
Lo studio rappresenta un passo significativo nel trattamento della malattia di Lyme, indicando cure alternative, potenzialmente valide, nel combattere le infezioni persistenti causate da Borrelie ancora vitali dopo il ciclo antibiotico standard.
I risultati suggeriscono tuttavia che occorrono ulteriori ricerche sui regimi antibiotici combinati, insieme a puntuali verifiche sulla loro efficacia e sugli eventuali effetti avversi, prima di poter ipotizzare l’avvio della sperimentazione clinica sull’uomo.
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I cambiamenti climatici agevolano la diffusione della malattia di Lyme, trasformandola in minaccia sempre più presente a livello locale e globale. Per gli esperti l’innalzamento delle temperature e gli eventi ad esso associati faranno aumentare anche i casi di febbre del Nilo Occidentale (West Nile fever), dengue e malaria.
Lo sottolinea l’editoriale di gennaio della rivista Medical Science Monitor che indica tra i rischi per la salute anche:
– l’emergere di nuovi agenti infettivi
– l’aumento della resistenza agli antibiotici
– la crescita delle malattie trasmesse da vettori.
L’associazione tra clima e zecche
Il riscaldamento globale sta già cambiando il comportamento, la distribuzione e il ciclo vitale delle zecche.
Con gli inverni sempre più miti le zecche non vanno in “letargo” (diapausa) ma restano attive tutto l’anno, aumentando di conseguenza le possibilità e il periodo di riproduzione.
Le temperature più elevate estendono inoltre gli habitat favorevoli al loro insediamento e permettono alle zecche di espandersi in nuove zone, adattandosi anche a latitudini e altitudini un tempo considerate ostili.
Cosa dobbiamo aspettarci
È prevedibile un aumento del numero di zecche, con possibilità di imbattersi nel loro morso tutti i mesi dell’anno non solo in ogni ambiente naturale, ma anche negli spazi verdi di città.
Ciò porterà inevitabilmente all’espansione delle aree a rischio, causando anche più casi di malattia.
Le altre conseguenze
Oltre alle zecche il cambiamento climatico influenzerà anche altri vettori, come le zanzare, a loro volta responsabili della trasmissione di varie malattie.
Alcune, come la febbre del Nilo Occidentale (West Nile fever), sono destinate a diventare sempre più comuni e ad espandere geograficamente la loro portata interessando in particolare:
– i paesi del Mediterraneo
– gli stati dell’Europa settentrionale.
Le previsioni della Risk Map per l’Italia
Secondo le stime elaborate da INFORM (rete di collaborazione tra il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici e il Joint research centrer della Commissione europea), i cambiamenti climatici porteranno l’Italia a registrare:
– più ondate di calore estremo
– un generale aumento delle malattie trasmesse da vettori.
A tale aumento contribuiranno la globalizzazione, i frequenti scambi commerciali tra stati e i viaggi internazionali, attraverso i quali potranno arrivare nel nostro Paese nuovi virus d’importazione, in grado poi di diffondersi con i vettori (in particolare zecche e zanzare) presenti localmente.
Una conferma indiretta della previsione arriva dal monitoraggio dell’Istituto Superiore di Sanità che nel 2023 ha rilevato nel territorio nazionale:
– 362 casi di dengue
– 9 casi di Zika virus
– 7 casi di chikungunya.
Le indicazioni
Poiché il rischio di nuove malattie emergenti è alquanto concreto occorre:
– essere consapevoli delle possibili minacce per la salute
– assumere idonee misure di prevenzione
– attuare le indicazioni previste dai sistemi di sorveglianza nazionale.
Il richiamo
Caldo, inondazioni, siccità aggraveranno diverse patologie causate da agenti infettivi, sottolineando la stretta relazione che intercorre tra riscaldamento globale e salute.
Gli esperti evidenziano che non si tratta di previsioni ipotetiche ma di eventi che stanno già succedendo, “soprattutto perché la perdita di molti habitat naturali spinge gli animali e le loro malattie ad avvicinarsi di più all’uomo”.
Da parte sua l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) avverte: il cambiamento climatico è la minaccia sanitaria più significativa con cui l’umanità dovrà misurarsi nel medio termine.
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La morte per encefalite da zecche (Tbe) di due esemplari di fauna selvatica in bassa Valvarrone – monte Legnoncino ha fatto scattare l’allerta in provincia di Lecco. Per evitare possibili contagi alle persone l’Azienda sanitaria (ATS della Brianza) raccomanda massima attenzione a quanti abitano, lavorano o frequentano, anche per escursionismo, le aree montane.
Le zone al momento a rischio sono quelle di Colico, Sueglio, Dervio e Valvarrone.
I casi accertati
L’Istituto zooprofilattico sperimentale di Sondrio ha diagnosticato i due casi di encefalite da zecche in un camoscio e in un cervo delle montagne lecchesi, deceduti a causa della malattia.
Sono state inoltre rilevate positività in alcune capreal rientro dai pascoli della zona.
Si tratta dei primi rinvenimenti di Tbe in provincia di Lecco e fanno seguito alla circolazione del Tbe-virus nella fauna selvatica della vicina provincia di Bergamo, accertata nell’estate 2023.
Come si trasmette
L’encefalite da zecche può colpire sia gli animali (selvatici e domestici), sia gli esseri umani.
La trasmissione avviene generalmente con il morso di una zecca infetta, ma è possibile anche con il consumo di latte e prodotti a base di latte (come i formaggi)non pastorizzati.
Le analisi condotte dall’Istituto Zooprofilattico sui latticini prodotti nella stagione di alpeggio, anche provenienti dalla montagna lecchese, non hanno tuttavia segnalato alcuna contaminazione.
I sintomi
La Tbe colpisce il sistema nervoso centrale e può causare sintomi neurologici prolungati. In una limitata percentuale di casi può provocare anche la morte.
Circa un terzo delle infezioni umane è asintomatico.
In un ulteriore 30% di casi si presenta con febbre modesta (attorno ai 38°C) e sintomi simil-influenzali (mal di testa, dolori ai muscoli e alle articolazioni, stanchezza), che si risolvono nell’arco di pochi giorni senza lasciare conseguenze.
C’è infine un ulteriore 30% di casi che, dopo un intervallo di benessere di 1-3 settimane, sviluppa una seconda fase di malattia, con:
– febbre elevata (oltre i 39°C)
– notevole malessere generale
– forte mal di testa
– confusione mentale
– fotofobia
– forti dolori e disturbi motori
– paralisi flaccida (paralisi muscolare simile alla poliomielite, causa la perdita della motilità di uno o tutti e quattro gli arti, accompagnata dalla riduzione del tono e volume dei muscoli che diventano “flaccidi”).
Nei bambini, generalmente la seconda fase è caratterizzata da una meningite, mentre gli adulti oltre i 40 anni d’età sono a maggior rischio di sviluppare un’encefalite, con mortalità più elevata e conseguenze a lungo termine, che richiedono una impegnativa riabilitazione (più frequente nelle persone di oltre 60 anni).
L’encefalite da zecche non è contagiosa e può essere prevenuta con la vaccinazione.
Negli animali
La Tbe si presenta con sintomi neurologici che compromettono movimenti, deambulazione, funzioni sensoriali e orientamento.
Tipicamente sono causati dalla febbre (iperpiressia) e accompagnati da prostrazione (abbattimento), anoressia e decubito prolungato.
Nella maggior parte degli animali i sintomi regrediscono nell’arco di 10 giorni.
I consigli
L’Azienda sanitaria della Brianza raccomanda a quanti abitano o lavorano in montagna ed agli escursionisti che la frequentano di:
– utilizzare repellenti contro le zecche
– indossare abiti con maniche e pantaloni lunghi
– controllare di non avere zecche addosso
In caso di presenza di zecche l’ATS consiglia di “contattare il proprio medico curante per rimuovere correttamente il parassita e consegnarlo al Dipartimento Veterinario, per le analisi e la ricerca dell’agente patogeno”. L’obiettivo è monitorare l’epidemiologia della Tbe nel territorio.
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