La tesi, contenuta in una recensione pubblicata lo scorso febbraio sulla rivista Frontiers, segnala la necessità di potenziare le ricerche in questa direzione, suggerendo che la disautonomia potrebbe rivelarsi una componente chiave delle conseguenze a lungo termine.
Cos’è la disautonomia
La disautonomia è una disregolazione del sistema nervoso autonomo, dal quale dipendono la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, la digestione, la temperatura corporea, la sudorazione e la lacrimazione.
La comparsa della disautonomia è spesso associata a infezioni causate da diversi agenti patogeni ed è indicata come responsabile di:
- stordimento,
- affaticamento grave,
- debolezza,
- dolore toracico,
- deterioramento cognitivo con significativa compromissione della qualità della vita.
L’associazione con la malattia di Lyme
È noto che la malattia di Lyme può coinvolgere il sistema nervoso (neuroborreliosi) e provocare meningite, interessamento dei nervi periferici (meningoradicoloneurite), encefalite, mielite.
Per i ricercatori americani è in grado di coinvolgere anche il sistema nervoso autonomo, nonostante tale complicanza sia documentata in un numero molto limitato di casi e non sempre utilizzando criteri rigorosi.
A sostenere l’ipotesi è la significativa sovrapposizione dei sintomi di disautonomia e malattia di Lyme post trattamento, che condividono: affaticamento, dolore muscoloscheletrico, difficoltà cognitive.
Le analogie con il long-Covid
I ricercatori della Hopkins segnalano inoltre che la disautonomia ricorre nelle sequele post acute del Covid (il cosiddetto Covid lungo o long-Covid), manifestando una serie di sintomi centrati su:
- intolleranza allo sforzo,
- livelli sproporzionati di affaticamento,
- deterioramento neurocognitivo,
- sonno non ristoratore,
- mialgia/artralgia (dolori muscolati e articolari).
Una possibile causa comune
Le molte somiglianze tra long-Covid e malattia di Lyme post trattamento portano quindi l’università di Baltimora a ritenere che la disautonomia si possa collegare a entrambe le sindromi, “sebbene siano necessarie ulteriori ricerche”, dal momento che “attualmente non esistono studi utili a dimostrare chiaramente questa associazione”.
Se tali ricerche confermeranno l’ipotesi della Hopkins University si apre la possibilità di nuovi trattamenti per i pazienti di Lyme colpiti da sintomi persistenti.
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